Da Roio Piano al Gran Sasso:
Posted by Antonio Giampaoli | 2011-06-01 | Commenti: 0 | Letto 1623 volte
Roio Piano, giugno 2011. Il rione 'ncapugnale è il luogo in cui molti secoli fa (XII) sorgeva la dimora dell'amato Franco, il nostro illustre compaesano. Villa quae dicitur Morchonina, così, allora, veniva chiamata la vivace contrada medievale che il futuro Santo lasciò in giovane età per iniziare il suo percorso di avvicinamento a Dio che si concluderà, poi, in un territorio impervio e immacolato, sotto lo sguardo imponente del Gran Sasso, alle cui falde sorgeva il piccolo villaggio di Asserice e il monastero benedettino di Santa Maria ad Silicem.
Solo tre anni fa, il 5 giugno, i devoti calpestavano i petali dei fiori che coloravano i sanpietrini dei vicoli del paese di mezzo dell'altopiano roiano per portare in processione la statua del religioso. Adesso, pezzi di tegole infrante ammantano l'ingresso socchiuso di quel piccolo fabbricato rovinato.
Dietro l'uscio, il vuoto è riempito da calcinacci, pietre e tavole crollate dal solaio e dal tetto. Rimangono solo due travi brunite che si sostengono appoggiate sui fragili muri laterali. Dall'alto, la luce del sole penetra attraverso il ripostiglio che solo qualche mese fa racchiudeva la piccola statua bianca dell'eremita.
Sulla finestra laterale, in alto, fanno capolino i verdi rami di una pianta che ha attecchito sul terriccio e sulla sabbia dell'abitazione diruta. La dicitura "cielo terra" è decisamente appropriata per descrivere ciò che rimane di questo manufatto. Un gravoso silenzio spazia tra i vicoli circostanti, avvolge l'atmosfera e si aggira nel paese antico come un fantasma. Ma, stranamente, non ci si sente soli tra quelle mura poco rassicuranti, tuttavia, così familiari.
Quei posti nascondono e custodiscono gelosamente un "tesoro" che nemmeno il terremoto potrà mai portarci via. E proprio quella casa, che una volta doveva essere poco più di una stamberga, conservava, agli inizi del secolo passato, i resti di un prezioso cippo del ciliegio fatto crescere nel semenzaio della famiglia del futuro religioso. Quello che segue è un breve racconto tramandatomi, attraverso la tradizione orale, dai miei genitori, Franco e Anna Maria, e che così io vi riporto: "Un'antica leggenda narra di un miracolo avvenuto nel lontano medioevo, in un piccolo borgo montano dell'Appennino abruzzese, chiamato Rogie in villa Morchonia1, non lontano, di rimpetto, ad ovest, dalle Alpi Sabine2, nel punto in cui il sole lascia il suo cammino.
La città dell'Aquila non era ancora stata edificata. La vicenda ebbe come protagonista un giovane pastore di nome Franco, futuro Santo, il quale, un giorno di settembre, accomiatandosi dalla madre per seguire il gregge che svernava nella lontana Apulia, promise alla genitrice che il loro prossimo incontro sarebbe avvenuto quando i frutti tornavano a colorare l'albero di ciliegio posto nell'orto della casa paterna. Il fatto si manifestò, ma non a giugno, come era naturale che fosse, bensì a gennaio, nel pieno dell'inverno. Lo stupore per il miracolo e la gioia nel riabbracciare il figliolo regalò un momento di felicità e serenità a quella madre che solo la magia della natura e la purezza d'animo dell'uomo sanno donare".
Questo episodio ci propone, attraverso una visione strettamente taumaturgica, il dialogo tra la natura e l'uomo, soprattutto con una terra, la nostra, a volte un po' inquieta. Oggi, la resistenza e la duttilità dei materiali edili e l'evoluzione delle conoscenze tecniche che abbiamo a disposizione nel campo delle costruzioni e ristrutturazione antisismiche, se opportunamente impiegate, in base all'iter progettuale previsto per il cratere aquilano (peraltro non ancora completamente esaustivo), ci permetteranno di abitare in sicurezza questo territorio e proseguire con esso il nostro cammino, con rinnovata fiducia, al fine di evitare, così, perdite di vite umane che la mancanza di accortezza, l'ingordigia e la poca saggezza umana, soprattutto quella di chi avrebbe dovuto vegliare ed eseguire le opere a regola d'arte, così come si conviene, non ha fatto.
Ovviamente, la vulnerabilità degli aggregati rurali non può essere attribuita agli antichi mastri che operavano in base alla poco florida economia dell'epoca, con tecniche e materiali poco adeguati a fronteggiare gli scuotimenti tellurici di cui noi siamo stai diretti testimoni, bensì sarebbe stato meglio reclamare una maggiore attenzione anche da parte nostra che, nel piccolo, avremmo potuto apportare delle migliorie strutturali rendendo quei fabbricati più efficienti in relazione ad un evento sismico, peraltro, ingenuamente, disatteso.
La frammentazione delle proprietà di questi manufatti e, in alcuni casi, la lontananza di coloro che rivendicano su di essi dei diritti reali non ha certo portato giovamento per una corretta manutenzione di tali strutture. Tuttavia, la presenza di quegli antichi caseggiati, che costituivano il paese, aveva un valore che andava oltre la mera proprietà immobiliare, ma rappresentava, inconfondibilmente, nella sua semplicità ed essenzialità, un elemento di identificazione ed appartenenza al territorio. Comunque, le macerie, figlie di quelle antiche testimonianze, sono lì, distese, l'erba ci si aggroviglia sopra; silenti e ormai consolidate restano in attesa di essere rimosse per iniziare i lavori di ripristino, là dove possibile, e di riedificazione del borgo.
Un'attesa che sembra protrarsi ancora nel tempo in seguito, e non solo, alla confusione generata dal sovrapporsi delle ultime ordinanze in relazione al trasporto dei materiali di risulta. No, questa volta non c'è un Dio che confonde le lingue delle persone ad ostacolare la ricostruzione, ma semplicemente l'ostinazione degli uomini nelle loro eterne contrapposizioni. Il comune desiderio di riappropriarsi di quel piccolo mondo, d'un tratto dileguatosi in una notte di primavera, potrà essere soddisfatto soprattutto attraverso un adeguato senso civico e un'appropriata professionalità, là dove richiesta, di tutti gli attori coinvolti, i quali, si auspica, pongano in essere le condizioni affinché questa volontà non venga disattesa.
All'aia del paese (larellà), nell'antica rimessa, dove un tempo trovavano ricovero le trebbie della famiglia Equizi, l'artista Massimo Piunti ha inteso continuare la sua attività di fabbricazione di pupazze, fortemente voluta nella nostra terra, alla quale è molto affezionato, dando vita anche ad un interessante laboratorio artigianale con lo scopo di far conoscere e tramandare ai giovani questa antica tradizione abruzzese.
Appena messo in sicurezza l'abitato (in cui si spera venga ripristinata un'adeguata illuminazione nel tratto di strada che conduce alle case agibili), le piccole strutture ludiche presenti in questo angolo pubblico di Roio potranno essere sistemate e integrate con attrezzature mancanti per poi essere restituite ai bambini che necessitano di luoghi aggregazione e di divertimento.
Oggi, un numero, il 1550, contraddistingue l'aggregato di cui fanno parte gli edifici che includono il prezioso reperto della "casa di San Franco", ormai, un lascito soprattutto spirituale. Non una cappella o una chiesa, ma una semplice casa, simbolo del focolare domestico.
Un'eredità che ci lega direttamente alla nostra terra e alle comunità di Assergi e Lucoli, con le quali i diversi animi del religioso hanno interagito: il pastore, il monaco, l'anacoreta.
Il nerbo dello spirito della rinascita di questo piccolo borgo, da un grande passato, è racchiuso anche lì, dietro quell'esile facciata, così malconcia, che ancora si lascia sostenere dalle travi di pietra del portale in cui campeggia, nella chiave di volta, la scritta: "Memoria famiglia casa San Franco".
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